Articoli di Giovanni Papini

1906


La rivoluzione francese

Pubblicato su: Il Regno, anno III, fasc. 2, pp. 11-12
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Data: 20 gennaio 1906


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   Io non credo molto all' «obiettività» in generale e tanto meno all'obiettività degli storici eppure — perché non confessarlo? — leggendo la storia della rivoluzione francese che Gaetano Salvemini ha pubblicato da poco 1 ho sentito qualche volta vacillare nel mio spirito la mia noncredenza e ho durato una certa fatica a trovare degli argomenti per persuadere me stesso che finalmente anche in Salvemini ci sono delle prove di preferenze, degli indizi di parzialità, delle sfumature d'indulgenza, delle valutazioni implicite partigiane e che tutta quell'aria di serenità e quell'attitudine spregiudicata possono benissimo essere delle abili affettazioni per nascondere una più raffinata soggettività. Se quest'ultima supposizione fosse vera, dovrei fare al Salvemini dei complimenti non solo in qualità di storico ma anche di diplomatico perché la maschera di obiettività è così bene appiccicata al viso che si direbbe faccia tutt'uno con esso, e sia fatta della stessa sua materia. Malgrado la sua giovinezza, il Salvemini ha proprio tutti gli atteggiamenti giudiziari di un buon politico convenientemente scettico e naturalmente calmo. Non condanna mai del tutto nessuno ma condanna quasi tutti; non loda completamente nessuno ma loda un po' tutti. Sa le debolezze della carne; i suggerimenti dell'ambizione; le suggestioni delle folle; i contagi psichici delle grandi città; la naturale cecità dei grandi. Cerca di mettersi nei panni e nelle anime di tutti; di riportare i fatti ai loro quadri; di ricollocarli in tutto l'insieme degli avvenimenti di cui fanno parte; di interpretarli senza decidere dogmaticamente sul pro e il contro e per ciò é riuscito, malgrado le sue note tendenze democratiche, a scrivere una storia della rivoluzione francese dove non cí sono declamazioni, dove non ci sono frasi, non apostrofi, non pistolotti, non rettorica; dove l'apologista non si fa troppo scorgere e l'accusatore è piuttosto mite. Un libro, per farla finita, che è lontano egualmente dall'apoteosi e dal pamphlet; un libro ch'era molto difficile scrivere soprattutto da uno che provenisse da un partito ormai abituato a vantare sulla Rivoluzione Francese una specie di laudativo diritto feudale.
   Ma il Salvemini é riuscito quasi dappertutto a mettere chiaramente le cose a posto: egli disprezza gli aristocratici fannulloni ma pure riconosce la grande funzione esercitata dall'antica nobiltà francese e non nasconde come fra i preparatori e i sinceri cooperatori della rivoluzione ci siano stati molti nobili; ammira il popolo e ciò che ha fatto ma confessa volentieri che il popolo slegato ed eccitato, quando non ha più dighe tradizionali che lo trattengano, è una mala bestia che commette delle crudeltà anche peggiori di quelle che vengono rimproverate alle peggiori autocrazie e aristocrazie di cui racconti o favoleggi la storia. Luigi XVI era un imbecille ma però era pieno di buone intenzioni; Mirabeau era un epicureo dalla vita losca ma pure vedeva e prevedeva gli avvenimenti meglio di tutti; Danton non incoraggiò e non aiutò le stragi di settembre ma neppure agì energicamente per impedirle. E così di seguito. Il Salvemini, come tutti quelli che sono imparziali o che voglion passare per imparziali, ha la mente un po' altalenesca e distribuisce il chiaro e l'oscuro, l'approvazione e il disprezzo, le medaglie e gli schiaffi con un senso della misura che fa ben pensare per la sua futura carriera politica.
   E non bisogna immaginarsi che un libro scritto con questo spirito di calma ambiguità non interessi e non afferri il lettore. Prima di tutto i fatti sono interessanti, tanto più interessanti quanto più conosciuti e popolari e d'altra parte il Salvemini scrive bene, con uno stile rapido, nervoso, colorito, qualche volta impuro ma quasi sempre energico ed espressivo, come si trova, in Italia, soltanto fra quelli che son passati attraverso il giornalismo e in quelli che hanno più piacere di far capire bene e presto una cosa che di mettere in riga i grandi periodi poliformi e policromi, maestosi e seccanti come vesti dai lunghi strascichi.


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   Ma questo libro del Salvemini non ha soltanto il merito d'essere una buona storia, obiettiva e piacevole, del primo periodo della Rivoluzione francese (1788-1792). Esso ha pure quello, molto più importante per conto mio, di suggerire intensamente una delle idee più originali che si possono avere sulla Rivoluzione, una di quelle idee che danno il piacere di lasciarsi estendere con una certa facilità a tutta una classe di fatti simili, e da questa classe ad altre, tanto in là da rendere possibile anche una metafisica addirittura.
   L'idea è questa: la rivoluzione francese non é stata una, vera e propria reazione all'ancien regine ma é stata piuttosto la continuazione dell'ancien regime e non solo la continuazione ma l'esagerazione e, in certi casi, il ritorno alle tradizioni antiche dell'ancien regime o, in altri casi, l'esecuzione più rapida ed energica d'ideali e di programmi permanenti ed impliciti in esso. Quest'idea era già stata accennata dal Tocqueville e da altri, soprattutto per ciò che riguarda l'accentramento perché era impossibile non accorgersi come i governi rivoluzionari che si son succeduti in Francia dall'Assemblea Nazionale a Napoleone non hanno fatto che continuare, intensificare e accelerare quell'ingrandimento del potere centrale ch'era stato uno dei fini massimi della monarchia francese fino da Luigi XIII. Ma la Rivoluzione non ha continuato ed accentuato l'opera della monarchia francese soltanto in questo. C'è un altro punto molto grave in cui è accaduto lo stesso ed é quello della posizione privilegiata dei burocratici che aiuta l'arbitrarietà dei governi. In Inghilterra — come osserva molto bene il Crespi a proposito di questo libro del Salvemini 2 — esiste un vero diritto amministrativo. «Nel mondo anglosassone i rapporti tra cittadini e funzionari pubblici nell'esercizio delle loro funzioni, tra cittadini e


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amministrazioni dello Stato, tra funzionari come cittadini e lo Stato, sono governati dalla legge comune che regola i rapporti tra singoli cittadini. Nel caso di relazioni tra cittadini e cittadini, come in quello di relazioni tra cittadini e pubblici funzionari nell'esercizio delle loro funzioni, non v'è una differenza di giurisdizione: i tribunali ordinari non bastano. In Francia, invece — e cosi pure da noi — v'è un insieme di norme che fanno alla pubblica amministrazione e ai suoi organi una posizione giuridica speciale. Il funzionario che obbedisce alle norme del regolamento, anche se danneggia il cittadino, è salvo.... Ora la Rivoluzione Francese non ha distrutto questa dualità nei criteri che presiedono ai rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni, e non ha così instaurata la sovranità del diritto in tutto e su tutti.... La Rivoluzione Francese ha dato la sovranità alla maggioranza ma non la libertà, ha mutato il nome e la forma dell'onnipotenza statale, ma ne ha lasciata intatta e in qualche direzione ne ha accresciuta la sostanza».
   E doveva accadere così per forza anche per le origini teoriche da cui moveva la rivoluzione. Il Salvemini, parlando delle teorie politiche del secolo XVIII, dimostra molto bene come tra i Fisiocratici e i seguaci di Rousseau i veri rivoluzionari fossero i primi perchè riconoscevano le necessità naturali al di sopra degli arbitri umani e volevano tener conto della diversità e dell'individualità degli uomini mentre i filosofi rivoluzionari colla loro ingenua credenza nell'onnipotenza della volontà umana non facevano altro che trasportare la Provvidenza sulla terra e la tirannia dall'uno nei molti. «Che cosa, infatti, faceva mai il Roussean — scrive il Salvemini — nel dare allo Stato democratico illimitata autorità sulla vita, sui beni, sull'anima stessa dei cittadini se non ispirarsi alla pratica delle monarchie assolute e delle ideologie dei vecchi teorici dell'assolutismo, sostituendo solo alla sconfinata volontà arbitraria del principe l'onnipotenza della infallibile volontà generale?» (p. 66).
   E lo stesso ritorno alle tradizioni dispotiche si trova anche nel modo di amministrar la giustizia. Gli arresti alla cieca: i giudizi sommari; le stragi in massa; l'esecuzioni ingiustificate si trovano più spesso nella storia della Rivoluzione che in quella della monarchia. Anche in questo la differenza consiste specialmente nella maggiore energia e rapidità ma i procedimenti, mutati i nomi e i pretesti, sono identici.
   E la Rivoluzione francese raccolse l'eredità dell'ancien regine perfino in fatto di politica estera e d'espansione territoriale. Il Salvemini ci mostra acutamente come le guerre della rivoluzione ebbero, in parte, gli stessi fini e furono guidate dalle stesse preoccupazioni di quelle condotte prima dai re francesi. In cosa differiscono, si chiede il Salvemini, le «cause finali di questa guerra compietatrice della unità naturale del territorio dalle vecchie guerre di Francesco I, di Richelieu e di Luigi XIV? Che cosa fanno, insomma, i rivoluzionari, non appena sostituiscono sè alla monarchia, se non continuarne con nuove parole e con più subitanea esecuzione il programma nel campo della politica internazionale, così come lo hanno già fedelmente continuato per la politica interna antifeudale, antiecclesiastica, assimilatrice delle leggi e dell'amministrazione? Mentre tutti credono e affermano che comincia una nuova storia, la perenne storia nazionale si prolunga nella rivoluzione: quel predominio che la vecchia Francia monarchica aveva sempre tentato di conquistare sulle altre monarchie col solo aiuto della forza, ecco che la nuova Francia della democrazia si appresta a conquistarlo ora sui popoli in nome della. libertà» (p. 278).
   Volendo mettere queste suggestive osservazioni in una formula esagerata e generale si potrebbe dire che le rivoluzioni non sono altro che il ritorno alle origini di ciò che voglion distruggere, vale a dire ch'esse si valgono per abbattere qualche cosa di ciò che ha fatto la forza e la giovinezza di questa cosa. Le rivoluzioni sono cioè delle energiche imitazioni -- tanto energiche ed esagerate che disfanno e disprezzano il modello. Questa formula si potrebbe estendere ancora di più e sì potrebbe dire che il mondo procede per lunghi periodi di solidificazione e cristallizzazione interrotti da brevi periodi e sbalzi che fanno ritornare le cose al loro primo-stato di fusione e che perciò chi vuol cambiare il mondo deve dissolverne la abitudini e cercare di renderlo plastico e mobile come era nelle origini....
   Ma la Rivoluzione Francese è già responsabile di troppe cose e non voglio farle generare una metafisica di più.


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